
L’AVVERSIONE DEL GLOBALISMO PROGRESSISTA: LA FIGURA DI KIRK COME ICONA DELL’ALTERITÀ INCONCILIABILE
"La morte violenta di Kirk (1993-2025), consumatasi nel cuore di un’università statunitense, ha travalicato immediatamente i confini dell’evento di cronaca. Non si è trattato soltanto dell’assassinio di un uomo, bensì della soppressione simbolica di un archetipo politico che aveva osato incarnare un principio altro rispetto all’ordine culturale dominante.
La reazione del globalismo progressista a tale evento, oscillante tra freddezza, giustificazione implicita e talora compiacimento, manifesta non tanto un giudizio sulla persona, quanto il rifiuto radicale di riconoscere legittimità a qualsiasi visione che si sottragga alla logica uniformante dell’universale ideologico.
In questo orizzonte, l’avversario non è percepito come interlocutore da confutare, ma come ostacolo ontologico da rimuovere. Non si contesta un discorso, lo si annienta alla radice, negandogli la possibilità stessa di esistere nello spazio pubblico. Ciò avviene perché la grammatica del globalismo progressista non ammette il pluralismo autentico: esso proclama il valore della differenza, ma solo se questa è assorbita all’interno di una cornice che la rende innocua, compatibile, funzionale al disegno universalistico. Là dove, invece, emerge un’alternità irriducibile, radicata in principi che non possono essere negoziati, il globalismo reagisce con la stigmatizzazione, con la delegittimazione, infine con l’espulsione dal consorzio civile.
La figura di Kirk aveva assunto, nel tempo, questa funzione di scandalo: egli mostrava, con la sua stessa presenza, che un’altra architettura di senso era possibile, fondata non sull’astrazione cosmopolitica ma su valori concreti, comunitari, identitari. Non importa qui il merito puntuale delle sue affermazioni: ciò che contava era il suo statuto di simbolo, la sua capacità di richiamare una fonte di normatività e di appartenenza non riconducibile al paradigma dominante.
Per questo, la sua eliminazione fisica e la conseguente esultanza simbolica non sono accidenti isolati, ma il compimento coerente di una strategia: sottrarre visibilità all’alterità radicale, privarla di voce, ridurla al silenzio. Il paradosso si fa allora evidente: il globalismo progressista, che proclama di difendere la dignità dell’uomo, cade nella contraddizione più estrema proprio quando nega la dignità a chi non si conforma al suo orizzonte.
La tolleranza, elevata a dogma retorico, si rivela nella pratica intolleranza verso la differenza reale. Si rivendica l’universalità dei diritti, ma la si nega a coloro che incarnano un diverso ordine di senso.
È il rovesciamento di ciò che dovrebbe essere il fondamento stesso della convivenza: il riconoscimento che l’altro, prima ancora di essere avversario politico, è uomo e, come tale, meritevole di rispetto.
La vicenda di Kirk mostra, dunque, la fragilità strutturale del discorso progressista globale: esso si presenta come neutrale, inclusivo e universale, ma è in realtà esclusivo, selettivo e radicalmente conflittuale. La sua pretesa universalistica non è apertura, ma chiusura: chi non vi rientra è marchiato come irricevibile, indegno di cittadinanza, da neutralizzare persino nella memoria.
È qui che si manifesta la deriva di un sistema che, rinunciando alla dialettica, abdica al logos e si consegna alla pura prassi del dominio. Il destino di Kirk diventa, allora, paradigma e monito. Paradigma, perché rivela come il conflitto politico contemporaneo non si giochi più sul terreno della ragione argomentativa, ma su quello della soppressione simbolica e talora fisica dell’avversario. Monito, perché mostra come la civiltà stessa rischi di dissolversi quando non è più in grado di tollerare la differenza essenziale, quando non accetta che vi sia un fondamento di senso che sfugge all’omologazione globalista.
Là dove l’uomo è ridotto a emblema da abbattere, e non più riconosciuto come portatore di una voce irriducibile, la comunità politica non è più ordine, ma decadenza."