DAL BECCO DI CICOGNA ALLO "SPAZZACAMINO" (Davide Mattellini)

PROSA E POESIA

8 Ottobre 2025


Dal becco di cicogna allo “spazzacamino”

(Davide Mattellini)

C’è  un  suono  dantesco  molto  particolare,  che  mai  oltre  a  Dante  ci  è parso di udire con insistita arditezza, addirittura in posizione dominante  di rima: quello che culmina in -ogna. Parrà forse ad alcuni suggestione  pura e superficiale di poeta, sempre al servizio dell’ascolto più che alle  necessità dell’intelletto.  E  sia  pure.  Con  tutto  ciò  non  viene  meno,  anche nel sensuale e superficiale istinto del poeta-musicista, la volontà  di referenziare almeno significativamente questo suono tanto ostico da  porsi in fondo al verso.  Muove senz’altro curiosità più di ogni altra occorrenza il verso del  32° dell’Inferno, nel quale Dante pone a bagno gelido i dannati della  Caina.  Tutto  quel  canto  risulta  fortemente  caratterizzato  da  rime  non  convenzionali: -uro, -assi, -ante, -elo, -icch, -ana, -ogna, -accia... Ma  più di ogni altra, balza agli occhi l’immagine dei dannati che battono i  denti nel ghiaccio del Cocito «in nota di cicogna» (v. 36); vale a dire,  come la cicogna quando ribatte il becco suo con ripetuto schioccolìo.  Studiando la ben costruita geometria della terzina e l’architettura dettata  dalla terza rima, appare evidente che quel verso non sia nato in ragione  delle rime di impianto che lo precedono, ma che proprio lì Dante voleva  arrivare per chiudere il periodo con una immagine tanto incisiva quanto  ironica o sarcastica:

E come a gracidar si sta la rana

col muso fuor dell’acqua quando sogna

di spigolar sovente la villana,

livide insin là dove appar vergogna

eran l’ombre dolenti nella ghiaccia

mettendo i denti in nota di cicogna.

Traduciamo in parafrasi: le ombre dei dannati stanno col capo fuori da  quel  corso  gelato  al  pari  delle  rane  quando  gracidano  in  estate,  nel  tempo cioè in cui ogni contadinella “sogna” la spigolatura; e per il freddo esse sono livide dalla testa al pube (la “vergogna”) emettendo suoni simili al battibeccare delle cicogne.   Appare qui evidentissimo, anche al non smaliziato filologo, come  l’unico verso davvero confacente alla ricostruzione dell’immagine pro- dotta sia solamente l’ultimo, ovvero quello che chiude il periodo. Che  la villanella “sogni” la spigolatura, piuttosto che a quella “tenda” (come  sarebbe più proprio dire) è forzatura manifesta; oltretutto la similitudine  della rana nel tempo estivo stride non poco con l’inverno glaciale del  fiume in cui patiscono quelle peggiori “anime prave”. Aggiungiamo un  ulteriore  elemento  che  comporta  distanza  fra  l’immagine  pensata  e  l’immagine rappresentata: che i corpi dei dannati, affioranti solo per il  “muso”, siano poi immersi sino alla “vergogna”, che notoriamente è la  regione pubica, tace negligentemente che anche le parti sovrastanti dei  dannati siano immerse in quel fiume gelido. Dunque anche qui ci troviamo di fronte a una parola-rima non poco forzata nel suo referente.  L’unica rima che veramente corrisponde alla precisa volontà del dettato  è proprio l’ultima, la cicogna, che col caratteristico battito del becco ci  trasfigura  a  perfezione  l’immagine  dei  dannati  nello  straziante  battidenti.  Saremmo  pronti  a  scommettere  che  tutto  il  passo  dantesco  sia  nato in ragione dell’ultimo verso, che per ovvie ragioni, a questo punto,  ci viene da  credere  sia stato anche il primo  a  essere scritto  condizionando tutto il resto.   Ma  potrà essere  che  solo  l’immagine  della  cicogna  battibeccante  abbia mosso l’estro del poeta, e non che piuttosto il suono stesso della  parola cicogna sia valso da stimolo al musico-poeta?  Il  rimario del  puristico Ruscelli,  fondato soprattutto sugli  esempî  petrarcheschi, più che danteschi, offre alla rima in -ogna queste quattro  uscite  principali:  bisogna,  menzogna,  sogna  e  vergogna.  In  aggiunta,  quasi fosse l’appendice sconsigliata o spuria alla poesia, anche agogna,  Bologna, Borgogna, Catalogna, cicogna, Cologna, cotogna, dispogna  (= disponga), pogna (= ponga), rampogna, rogna (scabies), sampogna  o  zampogna,  scalogna  e  poi  ancóra  vergogna,  ma  certo  con  diversa  mittenza  di  senso  rispetto  alla  principale  uscita.  Se  solo  il  Ruscelli  avesse voluto  completare quell’elenco col rimario  ariostesco,  avrebbe  potuto aggiungervi  anche i lemmi Sansogna e Guascogna. Dal repertorio  dantesco  invece,  anche  ramogna  e  ripogna  (=  riponga).  Nel  consuntivo generale, raffrontato al più moderno rimario del Mongelli,  mancherebbero comunque le rime carogna, cianfrogna, fogna, gogna,  melacotogna, ramogna e vigogna.  Qui ci corre, dopo il primo, il secondo rilievo, ma questa volta non  più  correlato  a  Dante,  bensì  al  compilatore  cinquecentista  che  paradossalmente omise non una deformazione glottologica o un riferimento  geografico, ma un vero e proprio lemma letterario: ramogna. Dante usa  ancóra questa rima difficile in Purgatorio, 11, 25, laddove incontriamo  la  «buona  ramogna».  Questa  è  la  misteriosa  espressione  che  tutti  i  commentatori, antichi e nuovi, intendono ormai come una formula di  auspicio oscillante fra il “buon augurio” e il “buon viaggio”. Eppure dal  contesto  risulterebbe  chiara  una  ben  differente  intenzione  del  Poeta.  Rileggiamo  il  passo  intero  del  poeta  che  si  approssima  al  secondo  girone del “dilettoso monte”, ove le anime dei superbi recitano un tropo  letterario del Pater noster. E a seguire:

Così a sé e a noi buona ramogna

quell’ombre orando, andavan sotto il pondo,

simile a quel che talvolta si sogna,

disparmente angosciate tutto a tondo

e lasse su per la prima cornice

purgando la caligine del mondo.

Sembrerebbe chiaro il dettato dantesco, sia pure nell’incognita di quella  “ramogna”: i superbi descritti sulla via del secondo girone proferiscono «a sé e a noi buona ramogna (...) orando», cioè “pregando”; e vanno  girando in tondo «sotto il pondo», sorreggendo cioè su «la cervice» (si  veda infra il v. 53) un masso sull’esempio mitologico di Sisifo, che nel  frangente diventa un insostenibile “incubo” («simile a quel che talvolta  si sogna»). Lo scopo del supplizio è manifesto: essi in tal modo vanno  «purgando la caligine del mondo», ossia tutte le colpe di cui si erano  macchiati in vita.   Dante,  nel  caso,  sicuramente  ancóra  per  suggestione  dell’ardua  rima  in  -ogna,  si  appella  al  francese  duecentesco  ramon  (dal  verbo  ramoner), che sta per “scopa”. Ma cosa c’entra il “buon augurio” o il  “buon viaggio” avanzato dagli scoliasti in un contesto in cui gli stessi  benauguranti, ossia le anime del secondo girone, sono testimoni di un  passaggio  penitenziale  sofferto  in  prima  persona?  Il  tropo  del  Pater  noster da esse recitato in apertura del canto muove da spinte teologiche  di  espiazione  e  da  richieste evidenti di perdóno  («E come noi  lo  mal  ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascuno, e tu perdona, / benigno, e  non guardar lo nostro merto»). Evidentemente la ricerca dei commentatori si è fermata alla prima riga del vocabolario, senza andare oltre per  scorgere le dovute mittenze del poeta. Il quale non parte dalle altre due  rime di impianto bisogna e sogna per costruire l’articolata metafora dei  dannati, ma proprio dalla parola ramogna, che risulta pertanto chiave  d’accesso alla  porta  della decodificazione generale  del  passo.  Ancóra  una volta, come  già  nel caso della “cicogna”,  il  suono  preponderante  vince sulla immediata necessità descrittiva.  Ci  è  sufficiente  abbordare  il  provenzale  dei  felibri,  raccolto  nel  Tresor di Mistral (sub v. ramouna ) per apprendere il senso proprio di  ramoner,  in  relazione  a  “ramoner  la  cheminée”,  ovvero  spazzare  il  camino, proprio come fanno i superbi del Purgatorio che, pregando, in  guisa di “spazzacamini”, calano il pondo (si intenda la spazzola metallica che netta le pareti fuliginose della cappa) nel camino dell’esistenza  per ripulirlo dalla caligine peccaminosa accumulata in vita.   Oltre 500 anni dopo Dante, persino Montale sfrutterà l’immagine inusuale della pulizia del camino nel traslato della sua “Volpe”, «mini-angelo  spazzacamino»  (si  veda  L’angelo  nero  in  Satura),  unica  in  grado di aprire un “varco” al “bipede” umano bisognoso di elevazione. Anche  quest’angelo  montaliano  ha  un  sentore  di  ramogna:  un’ardita,  quanto efficacissima metafora stimolata a Dante da una rara parola provenzale e dal suo adattamento toscano; parola che trova nel contesto del  Purgatorio la più appropriata collocazione, e come nella consuetudine  versificatoria dantesca, in posizione eminente, in rima. 



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