
Dal becco di cicogna allo “spazzacamino”
(Davide Mattellini)
C’è un suono dantesco molto particolare, che mai oltre a Dante ci è parso di udire con insistita arditezza, addirittura in posizione dominante di rima: quello che culmina in -ogna. Parrà forse ad alcuni suggestione pura e superficiale di poeta, sempre al servizio dell’ascolto più che alle necessità dell’intelletto. E sia pure. Con tutto ciò non viene meno, anche nel sensuale e superficiale istinto del poeta-musicista, la volontà di referenziare almeno significativamente questo suono tanto ostico da porsi in fondo al verso. Muove senz’altro curiosità più di ogni altra occorrenza il verso del 32° dell’Inferno, nel quale Dante pone a bagno gelido i dannati della Caina. Tutto quel canto risulta fortemente caratterizzato da rime non convenzionali: -uro, -assi, -ante, -elo, -icch, -ana, -ogna, -accia... Ma più di ogni altra, balza agli occhi l’immagine dei dannati che battono i denti nel ghiaccio del Cocito «in nota di cicogna» (v. 36); vale a dire, come la cicogna quando ribatte il becco suo con ripetuto schioccolìo. Studiando la ben costruita geometria della terzina e l’architettura dettata dalla terza rima, appare evidente che quel verso non sia nato in ragione delle rime di impianto che lo precedono, ma che proprio lì Dante voleva arrivare per chiudere il periodo con una immagine tanto incisiva quanto ironica o sarcastica:
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor dell’acqua quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti nella ghiaccia
mettendo i denti in nota di cicogna.
Traduciamo in parafrasi: le ombre dei dannati stanno col capo fuori da quel corso gelato al pari delle rane quando gracidano in estate, nel tempo cioè in cui ogni contadinella “sogna” la spigolatura; e per il freddo esse sono livide dalla testa al pube (la “vergogna”) emettendo suoni simili al battibeccare delle cicogne. Appare qui evidentissimo, anche al non smaliziato filologo, come l’unico verso davvero confacente alla ricostruzione dell’immagine pro- dotta sia solamente l’ultimo, ovvero quello che chiude il periodo. Che la villanella “sogni” la spigolatura, piuttosto che a quella “tenda” (come sarebbe più proprio dire) è forzatura manifesta; oltretutto la similitudine della rana nel tempo estivo stride non poco con l’inverno glaciale del fiume in cui patiscono quelle peggiori “anime prave”. Aggiungiamo un ulteriore elemento che comporta distanza fra l’immagine pensata e l’immagine rappresentata: che i corpi dei dannati, affioranti solo per il “muso”, siano poi immersi sino alla “vergogna”, che notoriamente è la regione pubica, tace negligentemente che anche le parti sovrastanti dei dannati siano immerse in quel fiume gelido. Dunque anche qui ci troviamo di fronte a una parola-rima non poco forzata nel suo referente. L’unica rima che veramente corrisponde alla precisa volontà del dettato è proprio l’ultima, la cicogna, che col caratteristico battito del becco ci trasfigura a perfezione l’immagine dei dannati nello straziante battidenti. Saremmo pronti a scommettere che tutto il passo dantesco sia nato in ragione dell’ultimo verso, che per ovvie ragioni, a questo punto, ci viene da credere sia stato anche il primo a essere scritto condizionando tutto il resto. Ma potrà essere che solo l’immagine della cicogna battibeccante abbia mosso l’estro del poeta, e non che piuttosto il suono stesso della parola cicogna sia valso da stimolo al musico-poeta? Il rimario del puristico Ruscelli, fondato soprattutto sugli esempî petrarcheschi, più che danteschi, offre alla rima in -ogna queste quattro uscite principali: bisogna, menzogna, sogna e vergogna. In aggiunta, quasi fosse l’appendice sconsigliata o spuria alla poesia, anche agogna, Bologna, Borgogna, Catalogna, cicogna, Cologna, cotogna, dispogna (= disponga), pogna (= ponga), rampogna, rogna (scabies), sampogna o zampogna, scalogna e poi ancóra vergogna, ma certo con diversa mittenza di senso rispetto alla principale uscita. Se solo il Ruscelli avesse voluto completare quell’elenco col rimario ariostesco, avrebbe potuto aggiungervi anche i lemmi Sansogna e Guascogna. Dal repertorio dantesco invece, anche ramogna e ripogna (= riponga). Nel consuntivo generale, raffrontato al più moderno rimario del Mongelli, mancherebbero comunque le rime carogna, cianfrogna, fogna, gogna, melacotogna, ramogna e vigogna. Qui ci corre, dopo il primo, il secondo rilievo, ma questa volta non più correlato a Dante, bensì al compilatore cinquecentista che paradossalmente omise non una deformazione glottologica o un riferimento geografico, ma un vero e proprio lemma letterario: ramogna. Dante usa ancóra questa rima difficile in Purgatorio, 11, 25, laddove incontriamo la «buona ramogna». Questa è la misteriosa espressione che tutti i commentatori, antichi e nuovi, intendono ormai come una formula di auspicio oscillante fra il “buon augurio” e il “buon viaggio”. Eppure dal contesto risulterebbe chiara una ben differente intenzione del Poeta. Rileggiamo il passo intero del poeta che si approssima al secondo girone del “dilettoso monte”, ove le anime dei superbi recitano un tropo letterario del Pater noster. E a seguire:
Così a sé e a noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto il pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutto a tondo
e lasse su per la prima cornice
purgando la caligine del mondo.
Sembrerebbe chiaro il dettato dantesco, sia pure nell’incognita di quella “ramogna”: i superbi descritti sulla via del secondo girone proferiscono «a sé e a noi buona ramogna (...) orando», cioè “pregando”; e vanno girando in tondo «sotto il pondo», sorreggendo cioè su «la cervice» (si veda infra il v. 53) un masso sull’esempio mitologico di Sisifo, che nel frangente diventa un insostenibile “incubo” («simile a quel che talvolta si sogna»). Lo scopo del supplizio è manifesto: essi in tal modo vanno «purgando la caligine del mondo», ossia tutte le colpe di cui si erano macchiati in vita. Dante, nel caso, sicuramente ancóra per suggestione dell’ardua rima in -ogna, si appella al francese duecentesco ramon (dal verbo ramoner), che sta per “scopa”. Ma cosa c’entra il “buon augurio” o il “buon viaggio” avanzato dagli scoliasti in un contesto in cui gli stessi benauguranti, ossia le anime del secondo girone, sono testimoni di un passaggio penitenziale sofferto in prima persona? Il tropo del Pater noster da esse recitato in apertura del canto muove da spinte teologiche di espiazione e da richieste evidenti di perdóno («E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascuno, e tu perdona, / benigno, e non guardar lo nostro merto»). Evidentemente la ricerca dei commentatori si è fermata alla prima riga del vocabolario, senza andare oltre per scorgere le dovute mittenze del poeta. Il quale non parte dalle altre due rime di impianto bisogna e sogna per costruire l’articolata metafora dei dannati, ma proprio dalla parola ramogna, che risulta pertanto chiave d’accesso alla porta della decodificazione generale del passo. Ancóra una volta, come già nel caso della “cicogna”, il suono preponderante vince sulla immediata necessità descrittiva. Ci è sufficiente abbordare il provenzale dei felibri, raccolto nel Tresor di Mistral (sub v. ramouna ) per apprendere il senso proprio di ramoner, in relazione a “ramoner la cheminée”, ovvero spazzare il camino, proprio come fanno i superbi del Purgatorio che, pregando, in guisa di “spazzacamini”, calano il pondo (si intenda la spazzola metallica che netta le pareti fuliginose della cappa) nel camino dell’esistenza per ripulirlo dalla caligine peccaminosa accumulata in vita. Oltre 500 anni dopo Dante, persino Montale sfrutterà l’immagine inusuale della pulizia del camino nel traslato della sua “Volpe”, «mini-angelo spazzacamino» (si veda L’angelo nero in Satura), unica in grado di aprire un “varco” al “bipede” umano bisognoso di elevazione. Anche quest’angelo montaliano ha un sentore di ramogna: un’ardita, quanto efficacissima metafora stimolata a Dante da una rara parola provenzale e dal suo adattamento toscano; parola che trova nel contesto del Purgatorio la più appropriata collocazione, e come nella consuetudine versificatoria dantesca, in posizione eminente, in rima.