
Un caso editoriale sconosciuto:Holocaustul Rosu
(a cura di Silvia Luscia)
Da decenni la classe intellettuale di sinistra si arroga in tutta Europa l’esclusiva della gestione della memoria storica, monopolizzando conferenze e pubblicazioni, ma anche censurando gran parte di quello che riguarda le dittature comuniste dell’Est Europa. Il caso che vi presento è emblematico.
Il dottore romeno Florin Matrescu, originario di una famiglia di oppositori al regime comunista di Ceausescu, in forte conflitto con il direttore dell’ospedale Comunale di Bucarest, Sorin Oprescu, decise, durante la dittatura di matrice sovietica, di emigrare in Germania dove svolse la sua professione per 20 anni. Qui ha continuato a rinnegare la dittatura comunista in Romania, ma il suo interesse per la storia e il suo contributo all’organizzazione della resistenza anticomunista anche in Germania, lo ha portato ad avviare un’indagine sui crimini comunisti nel Mondo. Dopo la caduta del regime di Ceausescu rientrò in Romania e qui tradusse la Costituzione Federale Tedesca offrendola alla Convenzione Democratica affinché la studiasse e la applicasse anche in Romania. Una visione sicuramente attenta alle grandi differenze di questo Paese che avrebbero potuto trovare una forma di convivenza pacifica e una soluzione. Ma così non è stato. Il 7 settembre 2006 allora Matrescu, insieme ad altri intellettuali, ha attuato un autentico processo al comunismo a Cluj, azione che purtroppo non ha goduto, volutamente, dell’attenzione dei media e degli amici di Vladimir Tismaneanu, il grande ricercatore e studioso dell’ Istituto per l’Investigazione dei Crimini Comunisti in Romania. Lo stato d’accusa all’Olocausto Rosso non è stato compreso o volutamente taciuto? Perché il testo non ha avuto eco fuori dal contesto nazionale e altre case editrici non si sono interessate alla traduzione?
La materia è certamente complessa anche perché alcuni protagonisti di questa sanguinosa pagina storica sono ancora in vita, ma in questa rivista vogliamo, anche se parzialmente, dare spazio alla voce di Matrescu e alla sua inchiesta che indaga accuratamente l’argomento di cui stiamo trattando e ci permette di anticipare alcune problematiche che incontreremo nelle prossime sezioni.
Holocaustul Rosu è un saggio in due volumi e ora ci occuperemo del primo in cui, in una più ampia panoramica, che cerca di spiegare come fu possibile l’instaurazione del regime comunista a livello mondiale, vengono analizzati i casi nazione per nazione. Un capitolo viene dedicato alla questione romena[1] e daremo ad esso spazio traducendolo in italiano nelle righe a seguire.
Se molti sono gli scritti della memorialistica legati alla relazione tra carceri e campi di concentramento, scarse sono però le stime quantitative degli stermini operati dal regime comunista in Romania. In tal senso possiamo dire che però ci sono nuove informazioni raccolte da uno studio statistico contenente dati affidabili sul genocidio a cui è stata sottoposta la popolazione romena dopo il 23 agosto 1944. Sicuramente il più grande progetto di valore storico e morale è stato attuato dal Memoriale di Sighet e dal Centro Studi Internazionale che ha creato la “ Fondazione della Memoria”, dando notevole impulso alla raccolta e al trattamento relativo ai crimini comunisti in Romania, il cui beneficiario è almeno l’autore di questo libro.
In base al materiale raccolto possiamo distinguere due fasi cronologiche del dispiegamento dell’Olocausto rosso romeno. La prima fase inizia con l’inesistente armistizio, inesistente poiché la Romania dovette arrendersi senza condizioni il 23 agosto 1944, momento storico che ha portato alla deportazione di 180.000 soldati e ufficiali nei campi romeni o nei gulag sovietici, da cui solo alcuni, molti anni dopo tornarono, testimoniando le numerosissime morti. Molte persone risultano però ancora disperse perché gli archivi dell’ex KGB non sono stati aperti e il governo romeno “ neocomunista[2]” non aveva alcun desiderio né interesse a far luce su questo triste capitolo.
Secondo i dati della Commissione Rumena degli Armistizi il numero di prigionieri civili e militari deportati dai sovietici, subito dopo il 23 agosto1944, ammonterebbe a 100.000 unità, ma l’insieme delle fonti di riferimento fanno lievitare la stima a 180.000. Infatti recentemente nella palude vicino al fiume Bălti a Besarabia è stata scoperta un’altra fossa comune contenente 50.000 soldati dell’esercito romeno, che nel 1944 rappresentava la prima linea della resistenza contro l’offensiva della nota Armata Rossa. Questi soldati, ridotti in prigionia, furono relegati in un campo appositamente adibito alla loro custodia sulla riva del fiume, molti morirono di fame e freddo, alcuni che riuscirono a resistere vennero uccisi per strangolamento, i pochi sopravvissuti grazie alla fuga, ritornati in patria solo dopo il crollo dell’impero sovietico nel 1991, classificano la propria esperienza, senza esagerazione, come il “ Katin romeno[3]”. A seguito della loro testimonianza, nel 1992 gli scavi effettuati nella palude hanno confermato l’esistenza di decine di migliaia di scheletri nel punto indicato dai testimoni oculari.
Dopo l’occupazione dell’Armata Rossa un numero imprecisato di persone comuni è stato ucciso dai soldati sovietici, senza ragione o semplicemente per il possesso delle loro proprietà o per stuprarne mogli e figlie. Dopo le così dette “ elezioni libere” del 1946, durante le quali i comunisti crearono tensioni nei villaggi e nelle città, ripresero le uccisioni, stavolta legate a una serie di membri dei partiti storici, soprattutto dopo la conquista totale del potere da parte del Partito Comunista Romeno, protetto dallo stivale sovietico. A quel punto il terrore rosso travolse in pratica tutti gli strati sociali della popolazione. Un ruolo decisivo in questo processo è stato giocato dagli organi della Securitate, che operarono una repressione massiccia grazie ad agenti infiltrati e all’appoggio delle milizie speciali del KGB. Si trattava di armi nelle mani dell’ esercito e degli organi di governo, forti così di una milizia di informatori, pari a 4.500.000 unità su una popolazione nazionale di 20.000.000 abitanti, grazie a cui epurarono l’elite del paese, dopo un sommario giudizio del terribile Tribunale del Popolo. Qualsiasi difesa delle vittime era totalmente insignificante e nemmeno i comandanti delle prigioni davano alcuna certezza sulla restituzione fisica dei corpi dei detenuti dopo la morte. Questo è quanto accadde anche alle 16 persone che sperimentarono il “ treno della morte” organizzato da Nikolski e Teleman Ambrus dalla città di Timisoara.
Un’immagine di brutalità e sadismo in questo incomparabile orizzonte torturatore comunista romeno è dato dagli esperimenti carcerari di Pitesti e Suceava, sui quali nel 1995 è stato pubblicato un dossier di documenti denominato “ rieducare”[4]. Il regime stesso chiese valutazioni quantitative su cui discussero gli studiosi di storia e anche su richiesta dello stesso Ceausescu venne fatta una stima legata ai precedenti provvedimenti rieducativi nel periodo 1948 – 195,2 attuati nelle prigioni e nei campi di lavoro. Emerse che in questo lasso di tempo perirono 800.000 detenuti politici arrestati in seguito alle prime fasi di collaborazione con il KGB, per arginare la stessa opposizione interna al paese. Nel 1948 ci furono 150.000 arresti tra cui 3.000 ufficiali dell’esercito romeno, 2.000 membri dei principali partiti politici, 400 sacerdoti tra cattolici e ortodossi. Il 1 gennaio 1951 vennero invece arrestati 350 capi della comunità ebraica, mentre nel 1953 ricominciarono massicce le deportazioni dei contadini .Le esecuzioni ovviamente cominciarono con gli omicidi dei “ criminali di guerra” e continuarono poi per la soppressione di crimini legati alla sovversione dell’ordine sociale costituito dopo l’occupazione sovietica, da notare che nel 1946 tale accusa colpì soprattutto le file degli studenti universitari. All’azione di arresto seguiva la morte per esecuzione o a causa delle terribili condizioni di detenzione, spesso riservate proprio ai sostenitori dei partiti politici democratici. Poi nel 1948, dopo la costituzione della Repubblica e la cacciata di re Mihai, i “ funzionari del popolo”, avendo il controllo totale del potere politico, con incursioni notturne diedero il via agli arresti di massa di migliaia di persone, molte delle quali non furono nemmeno sottoposte a un processo per qualsivoglia reato, ma anche quando questo veniva messo in scena, il risultato era il medesimo: la condanna a una pena amministrativa abbinata alla carcerazione, senza riferimento concreto a oggettivi capi di accusa. Un pesante tributo di sangue venne pagato da 12 milioni di liberi contadini romeni e proprietari terrieri, vittime delle mitragliatrici portate nei villaggi per la loro distruzione, delle pistole dei sicari e degli attacchi aerei dell’aviazione, della deportazione massiccia per imporre la collettivizzazione forzata che in Romania raggiunse il 90% in modo identico alla Bulgaria, seconda solo all’URSS e superando Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia in cui si arrestava tra il 50% e il 70%. Questo significa che la persecuzione colpì dal 40% al 20% in più proprio la popolazione agricola romena.
A tutto ciò va sommato il Golgota della deportazione di migliaia di famiglie del Banato e dell’Oltenia, trasferite nel Baragar dove i sopravvissuti fondarono 18 nuovi villaggi, per non dimenticare i crimini del regime di Ceausescu e le vittime lì giustiziate.
Di recente un ufficiale della Secutitate della quinta direzione ha anche riferito alla stampa che sotto l’area verde antistante il Palazzo del Popolo, costruito da Ceausescu, c’è una fossa comune ove tutti i detenuti, che hanno lavorato alla costruzione della fondazione dell’edificio e alla fogna sotterranea, sono stati gettati. La morte ufficialmente risultava accidentale, ma in realtà era un atto pianificato per mantenere segrete le reti sotterranee, così una volta terminato il lavoro i detenuti sono stati uccisi e gettati negli stampi pronti per il calcestruzzo. L’affermazione può essere oggi facilmente controllata con attrezzature specializzate o rompendo il cemento delle fondazioni attraverso scavi nel prato di fronte all’edificio.
Sempre a Ceausescu si attribuiscono altre 400 morti durante e soprattutto dopo la rivolta e gli scioperi di Brasov nel 1987[5], per conseguenza della quale molte persone vennero mandate ai lavori forzati nelle miniere di uranio, dove trovarono la morte a seguito di “incidenti sul lavoro”, secondo i rapporti della Securitate. Sono noti anche casi di sparatorie per strada a seguito della manifestazione, ma la fonte delle informazioni relative al caso Brasov vuole ancora oggi mantenere l’anonimato.
Una categoria particolare, come già visto, furono i prigionieri e deportati classificati come sacerdoti, appartenenti al clero cattolico, ortodosso, ma anche alla minoranza protestante, al fine di demolire il potere della Chiesa nello Stato. Così già dal 1948 tutti i vescovi iniziarono ad essere trascinati a forza nelle prigioni comuniste, dove trovarono la morte 400 dei 4000 religiosi colpiti da questo olocausto. Tra i detenuti di Sighet lo stesso autore menziona Ioan Suciu, il vescovo Ioan Balan, Luis Boga, Adalbert Boros, Liviu Chinezu, Valeriun Traian Frentius, anton Durovici e Marcu Glaser, i quali condividevano la detenzione con altre persone, più di 200.000, accusate di parassitismo o crimini ancor più fantasiosi.
Nel pantheon delle vittime vanno ora ricordate le persone che parteciparono alla lotta armata anticomunista nelle montagne romene tra il 1946 e il 1958, unico caso nella storia dei Paesi occupati dall’Urss appena finita la Guerra Mondiale in Europa, proprio appena dietro la cortina di ferro . La storia del martirio dei partigiani romeni è stato ripreso, anche editato, due decenni dopo dai mujahedin afgani che, insieme ai romeni, meritano uno studio particolare legato alla lotta anticomunista. John Gavrila Ogoranu, comandante di una formazione partigiana, uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio operato dalla Securitate, si distinse per l’opera di resistenza e il coinvolgimento che attuò tra contadini, militari, studenti, membri dei partiti liberali e fedeli cattolici e ortodossi. In questa lotta non furono coinvolti solo i guerriglieri, ma tanti professori e abitanti dei villaggi che contribuirono fattivamente fornendo cibo, armi e abbigliamento da montagna ai ribelli. Una volta organizzato il movimento sotto l’unico comando del gen. Aurel Aldea e tenutosi il Consiglio Romeno Nazionale in Francia, grazie al quale i partiti occidentali poterono scambiare notizie riservate, iniziò la fase di infiltrazione dei Servizi Segreti sovietici tra le file della resistenza, che portò all’arresto di 9 su 10 condottieri partigiani e al clima di terrore tra migliaia di operai, contadini, studenti e militari che nel 1948 appartenevano alla resistenza vittoriosa che vennero prelevati dalle montagne romene. Un successivo momento di speciale eroismo fu ad opera di un gruppo di 12 romeni che tra il 1951 – 1952 si paracadutò nel nord dei monti Apuseni. Alcuni dei membri morirono al momento dello sbarco, mentre altri furono arrestati nelle settimane successive a causa dei tradimenti mediati dall’agente sovietico – britannico Kim Philby. Non solo i partigiani vennero giustiziati, ma i villaggi che prestarono loro aiuto videro gli abitanti deportati, compresi i bambini. Si deve notare che la prima stima sui detenuti romeni in questi anni, per reati contro il comunismo, ammonta a 2.000.000 di prigionieri, dato che arriva a 3.000.000 grazie alle nuove testimonianze e di questi circa 250.000 giacciono in fosse comuni sparse per tutto il Paese. Tanti altri autori, in base alle informazioni di coloro che hanno sofferto nei campi e nelle prigioni, sostengono però che la cifra reale sia cumulativamente più alta. Vanno considerate infatti ancora, in un numero ad oggi approssimato per difetto, le vittime delle carceri centrali di Gherla, Sighet, Mislea, Ocnele, Mai, Jilava, Văcăresti e Pitesti, speciali penitenziari con pene superiori a 10 anni, nonché dei campi di lavoro di Oradea e Carasebes, creati a partire dal 1948, della tratta ferroviaria Bumbesti – Livezeni, delle miniere di uranio, rame, oro e soprattutto del Canale Danubio – Mar Nero, conosciuto come il canale della morte per le condizioni brutali in cui i prigionieri venivano sfruttati, per la mancanza di assistenza, malnutrizione o semplicemente per le esecuzioni sul lavoro di centinaia di migliaia di intellettuali e contadini. […]
Chi può mai calcolare poi il numero delle persone uccise dopo i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, progettati per mascherare il dissenso politico e prediletti da Ceausescu durante la sua dittatura? Proprio lui aveva nascosto al Forum Internazionale la situazione del Paese, preoccupato di dover rispettare i diritti umani, così che, cancellata parte dei dati, non si potrà mai conoscere il numero esatto delle persone uccise . Attenzione merita anche la situazione al confine tra Romania e Ungheria, e soprattutto Jugoslavia, dove, solo nel 1988, furono uccise 400 persone dalle guardie di frontiera romena e serba, mentre un numero molto maggiore di fuggiaschi morì annegato nel Danubio. Infine vorremmo fare una domanda: quando arriverà la cifra esatta di quelli, soprattutto nei 15 anni del regime di Ceausescu, che persero la vita nella disumana spirale di morte in cui non vanno trascurati gli anziani che non sopravvissero al freddo imposto nelle abitazioni, le donne decedute nel tentativo disperato di provocare l’aborto del bambino che portavano in grembo e che non avrebbero potuto nutrire e infine i troppi suicidi che nel 1983 portarono la Romania al triste primato di terzo Paese in Europa?
Anche il colpo di Stato inscenato a Timisoara e Bucarest, con un’ulteriore estensione in molte altre città del Paese, per abbreviare e porre fine agli eventi noti come “ Rivoluzione Romena del dicembre 1989” contiene dettagli insabbiati che hanno portato a un bagno di sangue operato dagli agenti della Securitate per conto del Ministero dell’Interno. A seguito della Rivoluzione persero la vita altre 1.030 persone, di cui 534 a Bucarest e 496 in provincia. 17 di queste vittime non avevano ancora raggiunto i 15 anni di età e 599 i 30 anni. È stato inoltre recentemente ricostruito come dopo il 22 dicembre a Timisoara abbiano perso la vita 52 persone ed è anche pervenuta la lista dei “ Martiri di Clujului”, del 21 dicembre 1989, costituita dalla ricostruzione di 27 nomi, citati come organizzatori e complici di questo bagno di sangue, ma non è ancora stato pubblicato il numero reale delle vittime.
La seconda fase persecutoria va invece ricercata nella seconda fase neo-comunista che va dal 1990 al 1996, che ha perseguito un’ altrettanto atroce serie di barbarie iniziate il 28 gennaio, proseguite il 9 febbraio e nel marzo 1990 a Targu Mures, dove vennero uccisi e molestati gli oppositori della fazione di Iliescu prima delle elezioni del maggio 1990, il tutto culminato con la repressione di 200 persone nella dimostrazione pacifica di Piazza dell’Università a Bucarest, grazie all’aiuto di minatori organizzati dallo stesso Ion Iliescu, ovviamente coadiuvato dagli agenti della Securitate. Il motivo? Prevenire il “ salvataggio della democrazia” e combattere gli “ elementi fascisti estremisti”.
Dopo le elezioni, nella notte tra il 13 e 14 giugno, all’Ospedale n. 9 di Bucarest nella sezione di neurochirurgia, alcune centinaia di persone, dopo aver riportato gravi lesioni al cranio, vennero ricoverate e poi internate, ma 60 di esse morirono dopo l’intervento alla scatola cranica. La motivazione del ricovero venne registrata come “ attacchi di forte mal di testa” e il registro coi nomi dei pazienti a carico del servizio di assistenza dei malati scomparso. Grazie a questo atto che è una frode morale, i funzionari di Iliescu hanno potuto presentare la cifra di sole 7 vittime. In questo modo hanno soffocato una manifestazione di coraggio civile e di vera critica democratica che Piazza dell’Università stava costruendo. Quella notte si ruppe la traballante “ governance democratica” che sembrava poter esistere in Romania. Per la disillusione della “ Rivoluzione Rubata” si determinò un’ulteriore ondata di suicidi, risultato unico della distruzione della speranza, che aggiunse altre 1300 vittime al macabro conteggio, ma questa volta non era solo disperazione depressiva era un atto di protesta politica. In conclusione dobbiamo sottolineare che la serie di crimini dovuti al regime comunista guidato da Gh. Gheorghiu – Dej, Nicolae Ceausescu e Ion Iliescu, l’ultimo di questi con caratteri essenzialmente neo- comunisti, non sono ancora chiariti. Le scoperte degli ultimi anni, come quelle sulle colline del drago o nell’ex palazzo Ghica nei dintorni di Bucarest, che funzionò tra il 1949 e il 1953 come sede della Secuitate nel quartiere di Sanagov, nell’area del cimitero comunale, hanno riportato alla luce inizialmente 140 scheletri di anziani e bambini ammassati in fosse comuni ai margini dei confini comunali e ora le salme riesumate sono salite a 300. Queste macabre scoperte sono seguite da altre simili che portano alla luce fosse nei recinti delle prigioni o nei pressi di grotte, come nella foresta di Suceava, in cui sono stati trovati gli scheletri di 10.000 uomini impiegati per la costruzione della ferrovia locale nel 1950 o degli uomini dell’ex poligono di tiro “ il boia”, luogo oggi utilizzato per smaltire la spazzatura della città di Suceava. Per dimostrare l’onestà delle nostre affermazioni possiamo solo sperare che questi risultati e altri in via di elaborazione vengano studiati attentamente per identificare sia le vittime, sia i carnefici, sia le condizioni delle morti, perché solo così le istituzioni della giustizia post – marxista si assumeranno la missione patriottica di rendere giustizia a centinaia di migliaia di cittadini romeni, sacrificati alla dittatura del terrore rosso sull’altare del comunismo, perché tra il 1945 e il 1989 hanno attraversato più di 120 prigioni e campi di lavoro 1.200.000 persone, con una mortalità annua tra il 1964 e il 1990 del 39,5%, 15 volte superiore alla normalità, in un Paese con un’età media di 40 anni.
(Traduzione a cura dell’autrice. Per approfondire l’argomento si rimanda a S. Luscia, Quel che resta del regime,Elisonpublishing, 2019
[1] Florin Matrescu, Holocaustul Rosu, Vol.I , Editura Irecson, Bucarest, 2008 ,pp. 127 – 137. Si tratta di una seconda edizione con i dati aggiornati oltre il 1996, mentre la prima edizione venne editata nel 1993.
[2] Si fa riferimento al governo presieduto da Iliescu nel 1990.
[3] Con il termine Katin si fa riferimento al massacro di soli ufficiali polacchi nel campo di prigionia di Kozielsk, nella foresta appunto di Katin, per ordine di Stalin. La scoperta fu annunciata già il 13 aprile 1943 da Radio Berlino, ma mai riconosciuta dai Russi. La vastità di questa azione ne ha fatto l’emblema delle persecuzioni comuniste e viene ripresa a modello per indicare una situazione di repressione disumana.
[4] Pitesti è una cittadina romena situata un centinaio di chilometri a nord-ovest di Bucarest e che nasconde la memoria dell'orrore compiuto nel suo carcere. Proprio a Pitesti, sorgeva un tempo un carcere speciale per la "rieducazione" dei prigionieri politici: qui, tra il 1949 e il 1952, furono infatti commesse atrocità tali da costringere persino il non tenero regime di allora a intervenire, eliminando fisicamente i responsabili di esse. Fu proprio la Romania, assieme alla Cecoslovacchia, a dare un contributo originale alla storia della repressione politica nell'Europa centrale e sud-orientale, introducendo nel continente europeo i metodi di "rieducazione politica".
[5] A partire dalla fine del 1986, i lavoratori di tutta la Romania iniziarono a mobilitarsi contro le manovre economiche varate dal leader comunista Nicolae Ceauşescu. Le rivolte sindacali sorsero nei maggiori centri industriali di Cluj-Napoca (novembre 1986) e Iași (febbraio 1987), culminando in un massiccio sciopero a Braşov, una delle più grandi città della Romania. Le misure draconiane adottate da Ceaușescu frenarono la produzione di energia e il consumo del consumo di cibo, portando alla riduzione dei redditi dei lavoratori e a ciò che il politologo romeno Vladimir Tismăneanu ha definito "insoddisfazione generalizzata".La Romania divenne quindi "il paese più vulnerabile del blocco orientale verso una rivoluzione".